Sei stata un regalo collettivo. Uno per tutti, tutti per te.
Babbo Titino ti prese da Nicola e da chi se no. A Nùoro c’era solo lui o meglio lui era il migliore. Sembrava (anche senza) che ci vivesse in quella sua officina-negozio di via La Marmora. Poco dopo zia Maria, a scendere. Nicola, quel signore alto e gentile, c’era sempre. Con un sorriso e tanta umiltà e un cacciavite in mano… come cantava in quegli anni la canzone del primo grande Lucio.
Tu, una Bianchi, non fosti la sola bicicletta che trovò spazio nella nostra cantina di via Pietro Nenni. Dopo di te venne una Atala. Sempre una bici da corsa e bella uguale. Ma non famosa come te. Tu eri una Bianchi, la Bianchi, non una qualsiasi. Quella che vinse il campionato del mondo qualche anno prima, nel 1973/1974.
Quella fama ci affascinò subito a noi fratelli e sorelle. E poi quel tuo colore verde acqua, semplicemente unico e così tremendamente simile al mare cristallino di sardegna su fondale bianco di sabbia.
Ma tu non eri solo bella. Tu la strada te la mangiavi. E lo hai fatto con me, allora nelle sinuose salite del Monte Ortobene o nella vertiginosa discesa che da Dorgali porta a Cala Gonone (la Montecarlo d’Italia, come la chiamava all’epoca il caro zio Gigi). E ora nei più lievi saliscendi delle colline umbre. Tu non mi ha mai tradito.
Neppure quando la mia insana voglia di velocità, come uno sciatore novello in una pista nera, mi accecava. E inebriato guardavo salire il contatore di velocità come se fossi Moser al record dell’ora nel 1984. Ma io ero io. Quando tagliavo male le curve o quando per distrazione prendevo qualche buca o magari qualche piccolo sasso. Tu sei sempre stata ferma, come la mano di un chirurgo.
Anche quella volta che sulla discesa per San Martino, tra quello in Colle e quello in Campo, saltò il freno di dietro. Il mio cuore batté forte convinto che la maggiore rigidità di quello davanti non mi avrebbe permesso di fermarmi senza cadere, a quella folle velocità. E invece, come la tirata di un gregario in una volata vincente, la frenata fu perfetta. Come perfetta è del resto la piana dei campi coltivati e degli ordinati vigneti a cui la strada poi conduce dolcemente.
Lo ammetto. Non ti ho mai dato grandi soddisfazioni. Non sono mai stato un ciclista, neppure amatoriale. Ho fatto come si sa un altro sport, il calcio. Molto diverso dal ciclismo. Ma non ho scuse. Sono stato e sono un discontinuo. Non mi posso neanche definire un ciclista della domenica. Quelli che ora invidio ogni volta che passano davanti a casa, in Strada Tuderte. A te quando raramente ti prendo, devo togliere via quel velo di polvere che ti ricopre. Che vergogna.
Allora perché scrivo di te. Per renderti merito certo, ma forse anche per scrivere un po’ di me. Per pensare e convincermi che quando mi sento là messo nell’angolo, quando penso di non farcela perché non ho le gambe di un ciclista e la salita si fa dura, bé in quei momenti mi fermo e penso o meglio scrivo.
E allora mi ricordo che ho sempre lottato. Nel campo da calcio come nelle salite con te. Come nella vita. Da solo come con chi mi ha voluto e mi vuole bene. In fondo, in questo siamo molto simili. Non ci faremo mai mettere da parte, almeno non del tutto. E per questo che parlo di te.
Perché so che ci sei e se questa domenica mi vorrò veramente bene, riuscirò a prenderti per fare un giro e tutto sarà più bello e forse più semplice.